Feste, Riti, Tradizioni

Nella descrizione seguiamo, per comodità, il ciclo dell’anno. La prima tradizione che incontriamo riguarda il Capodanno. Sono i canti della strina (strenna), canti di questua che coinvolgono i ragazzi che, in piccoli gruppi, girano per il paese, bussano alle porte e intonano stornelli, concludendo poi l’”esibizione” con la richiesta di compenso, un tempo esclusivamente in natura. Arriva quindi il tempo dei masci, il carnevale nel quale, con l’aiuto di vecchi abiti rivoltati, si creavano improbabili costumi e travestimenti che consentivano, grazie alla presenza di maschere, di fare scherzi spesso feroci. Oggi il carnevale ha assunto il significato di effettuazione di grandi scorpacciate e, per ricordarne le caratteristiche, si svolgono alcune sfilate di carri allegorici con grandi opere in cartapesta. Il carnevale più importante della Grecìa Salentina si svolge a Martignano, con sfilate di gruppi in costume e carri allegorici e si conclude poi con la morte de lu Paolinu, il carnevale. Sempre legata al carnevale è la tradizione de lu cannarutu. Si prepara per il bambino un uovo sodo che, appeso ad un filo, è fatto dondolare vicino al viso del bambino, che ha le mani legate per non toccare l’uovo durante il tentativo di addentarlo. Se il bambino ci riesce può mangiare tutto l’uovo, come premio. All’inizio della Quaresima, per le Ceneri, si espone la Quaremma. E’ un fantoccio che rappresenta una vecchia che, con fuso e conocchia, fila simbolicamente il tempo del dolore. La Quaremma, vestita di nero porta appesa alla cintola una arancia amara, come il tempo di passione; ad essa sono infilzate sette penne di gallina, sette come i sette dolori della Vergine Addolorata e le sette settimane della Passione. Ogni sabato viene sfilata una penna dall’arancia, fino al Sabato Santo, in cui viene sfilata l’ultima penna perché finisce il tempo di passione.
Il 19 marzo, in onore di S. Giuseppe, si apparecchiano le tavole, ed è una tradizione viva soprattutto nei paesi vicini ad Otranto. Una volta era l’occasione per allestire un pranzo per i poveri del paese poi, nel tempo, il significato è un poco cambiato e le tavole sono diventate strumento ed occasione di riappacificazione tra famiglie in lite tra loro.
I Santi invitati sono sempre in numero dispari, da un minimo di tre ad un massimo di quindici. Il capo della famiglia che offre il pranzo può solo servire i commensali, i Santi, ma non può toccare il cibo. Lo farà se sarà invitato a sua volta in casa di altri. La tavola imbandita (con pane, frutta, pesce, dolci, pasta) ed esposta è oggetto di visita, il 18 a sera, da parte della popolazione. Per gli ospiti, che non possono toccare nulla, è a disposizione un banchetto all’ingresso della casa, con dolciumi o sfizierie che gli ospiti sono tenuti ad assaggiare. A mezzodì del 19, entra il Santo principale, S. Giuseppe, che con dei colpi di bastone per terra invita i Santi a sedersi per pranzare. Spesso le tavole sono così ricche che è impossibile consumare tutto ed i Santi sono tenuti a portare a casa ciò che resta. Per la festa di S. Giuseppe, piatto tradizionale sono ciceri e tria (ceci e taglierina fatta in casa), piatto antichissimo come il nome della tria, dall’arabo treia, citato dal geografo Edrisi, durante un viaggio commissionatogli in Sicilia da re Ruggero. Nel piatto grecosalentino, circa un terzo della pasta viene sfritta nell’olio e mescolata con il resto della pasta, con i ceci e con il loro sugo. La Settimana Santa si annuncia con i canti della Passione in griko e de Lu Santu Lazzaru in dialetto romanzo. Sono anche questi canti di questua, che richiamano le villanelle toscane. Due cantori, con uso della mimica, si alternano in un canto incalzante, nel quale in una serie lunghissima di quartine si narrano passione e morte di Cristo. Il canto si conclude con la richiesta di ricompensa, ovviamente in natura. Nella domenica delle Palme (Ta Vaia) si partecipa alla benedizione delle palme e dei rami di ulivo che poi saranno portati nelle case e nelle campagne per propiziare la benevolenza divina; lì resteranno per un anno. Si allestiscono nelle chiese e nelle cappelle i sepolcri (sabburchi), addobbi floreali in onore del Cristo morto, ottenuti con semi di grano e di legumi lasciati germogliare al buio, che assumono così il colore bianco per l’assenza di fotosintesi clorofilliana. La processione con il Cristo morto si svolge nei vari paesi il venerdì santo, tranne che a Zollino e Soleto, dove la processione si svolge nel Sabato Santo, per una antica tradizione. Arriva quindi la Pasqua nella Grecìa senza tradizioni particolari, tranne che per l’aspetto gastronomico: il pane lavorato con l’uovo sodo al centro (le cuddhure) e, per pranzo, il piatto tradizionale delle coculeddhe, polpette di pane, formaggio, uova, prezzemolo, cotte nel brodo di gallina. E’ molto sentita la Pasquetta, (Paskareddha). Si va in campagna nel lunedì dell’Angelo (tranne a Sternatia e Castrignano dove la Pasquetta è spostata al giovedì dopo Pasqua. A fine aprile, per San Giorgio, a Corigliano si svolgevano le vutti, festa popolare in occasione del travaso del vino della vendemmia precedente. Tra aprile e maggio si svolgono i pellegrinaggi a Roca, tradizione nata prima della metà del Cinquecento e densa di significato. Dopo la presa di Otranto da parte dei Turchi, che utilizzarono Roca durante l’assedio della città idruntina, la città restò semidistrutta e la popolazione decimata. Il viceré di Lecce, Ferrante Loffredo, per evitare che i turchi sbarcassero nuovamente a Roca e per allontanare i briganti che intanto ne avevano fatto un rifugio, decise di far migrare all’interno la popolazione superstite. Gli abitanti di Roca furono spostati nei paesi di Vernole, Calimera, Melendugno e Borgagne, oltre che in un nuovo villaggio, Roca Nuova, a circa tre km dal mare. Dai quattro centri gli abitanti di Roca ritornano quindi dal XVI secolo, in pellegrinaggio, a turno, a Roca per venerare la Madonna nei sabati a cavallo tra aprile e maggio. Fino ad alcuni decenni or sono capitava di assistere a spettacoli teatrali in cui veniva rappresentato in forma romanzata il dramma di Roca (la Tragedia di Roca), che vari autori di Vernole. Melendugno e Calimera avevano rielaborato dallo stesso canovaccio: la sfortunata regina Sabella (Isabella), rapimenti, eccidi, eccetera. Solo una volta gli avvenimenti di Roca sono stati narrati in forma dissacrante, da Vito Domenico Palumbo, e ciò gli provocò grandi liti con il parroco di Calimera, papa Cesario (Gabrieli). Ma se la tradizione del pellegrinaggio a Roca è antica, la festa che la segue a distanza di un mese e mezzo è antichissima. E’ la Festa dei Lampioni, che si svolge a Calimera in giugno e che viene descritta più avanti. Non mancava la presenza del fuoco purificatore che, se non aveva incendiato con l’aiuto del vento i lampioni appesi, li incendiava tutti insieme a conclusione della festa. Sempre dalla tradizione pagana trae origine probabilmente la festa di San Giovanni, che a Zollino è arricchita dalla fiera omonima. Con l’estate, giungono le feste patronali, che accompagnano turisti e residenti per circa tre mesi. Tra le più sentite è la festa di San Pantaleone a Martignano. Tradizioni relativamente recenti sono le sagre, che ormai coinvolgono tutto ciò che è commestibile, dalla sceblasti a Zollino alla monaceddha a Cannole, dalla volìa cazzata a Martano a lu mieru a Carpignano (la prima della serie), dall’insalata grika a Martignano, a lu cuturusciu a Calimera (ultima nata). Da alcuni decenni festa popolare, nella Grecia Salentina significa Notte della Taranta. Nata in sordina a Melpignano per recuperare canti e danza greco salentini, è diventata un appuntamento che caratterizza l’estate nel Salento e richiama molte decine di migliaia di appassionati di tutte le età nei concerti che si svolgono nella Grecia e, soprattutto, nel concertone finale che ha luogo in agosto a Melpignano. La tradizione figula di Cutrofiano ha il momento di maggiore visibilità in agosto, con la fiera che ripropone una lavorazione tipica già radicata in paese dal Seicento. La festa de lu mièru a Carpignano ci fa tornare alla memoria i vigneti che, fino all’inizio del secolo scorso, occupavano gran parte dell’area. Nel 1921, la malattia distrusse centinaia di ettari di vigneti, che non furono più ripiantati. Per ritrovare i campi coltivati a vite, bisogna spostarsi verso Galatina, Sogliano, Cutrofiano, terre di negramaro e di malvasia, In ottobre una tradizione accomuna vari paesi: la liberazione delle comunità da parte dei Santi Protettori, dagli effetti di un uragano di gigantesche proporzioni. Martano con la Madonna del cattivo tempo, Martignano con la festa dell’uragano, ricordano lo scampato pericolo grazie all’intercessione della Madonna Assunta e San Pantaleone. Con la pucceddha, per la vigilia dell’Immacolata, si trasforma in festa la ricorrenza del digiuno. L’anno nella Grecìa si conclude con i presepi viventi, i tanti dolci tipici del Natale e, il 28, con la Festa de lu focu a Zollino, ancora con il ritorno simbolico del fuoco purificatore.

La terra si riposa per le fatiche di un anno e la gente ha un anno in più di cui raccontare.

Festa dei Lampioni

Il fuoco purificatore, la luce segnavano già nell’antichità le feste per il cambio delle stagioni. Erano feste rituali, in genere assorbite dal Cristianesimo, come la festa del solstizio d’estate, dedicata poi ai santi festeggiati in quel periodo dell’anno: Sant’Antonio, San Luigi, San Giovanni.   ​​La festa dei lampioni segna l’arrivo dell’estate a Calimera e nel Salento. Lampioni rudimentali si ritrovano graffiti in alcune grotte della Cappadocia, area di probabile origine della festa. A Calimera si è trasformata in una gara fra i ragazzi raggruppati per strada. Con materiali poveri (canne di palude, fili di ferro e di spago, farina ed acqua) venivano allestite opere di fantasia, senza limiti di forma e dimensioni. Attraverso collette nel vicinato, i ragazzi raccoglievano i denari necessari all’acquisto della carta velina e realizzavano i lampioni lontano dagli occhi indiscreti dei concorrenti... Nei giorni precedenti la festa di Sant’Antonio (13 giugno) e San Luigi (21 giugno), si tendevano lungo le strade fili di ferro avvolti con tralci di edera; nei giorni della festa venivano fuori stelle, navi, aerei che venivano appesi ed illuminati dall’interno con candele. Lo stupore e l’ammirazione dei partecipanti alla festa erano l’unico premio per gli artisti in erba.La festa, andata in disuso dopo la metà del secolo scorso, è stata ripristinata dal Circolo Ghetonìa negli anni Ottanta, ein parte modificata. Le lampadine hanno sostituito le candele ed il falò con i lampioni non chiude più la festa; si conservano le strutture dei lampioni che, con un nuovo vestito, saranno riutilizzati. Si aggiungeranno nuovi lampioni e la festa si ingrandirà. Oggi, Pro Loco e Ghetonìa realizzano i lampioni per il centro storico, anche attraverso laboratori didattici. Concerti e stand gastronomici sono curati dalla Pro Loco.​​​Dal 2020, le limitazioni imposte dal Covid19 hanno portato alla modifica della festa, ed è stata l’occasione per riportarla alle origini. Non lampioni concentrati nel centro, ma diffusi nelle case del paese, in verande, balconi, vani di accesso. Passate le restrizioni per la pandemia, le due forme di allestimento coesisteranno a Calimera, che sarà sempre più il paese dei lampioni, un inno alla fantasia.

Cappella di San Vito e la "pietra forata"

La chiesa di San Vito è quasi un vestito cucito addosso alla “pietra forata”, spuntone di roccia al centro dell’unica navata, ed è anche un segno dell’assorbimento da parte del cristianesimo di riti pagani precedenti.

Il rito propiziatorio di fertilità e benessere è comune a molte civiltà precristiane. La pietra forata (men-an-tol, “pietra con il buco” in lingua bretone) richiama lo schema dell’utero, come il menhir (“pietra lunga”) richiama il simbolo fallico (entrambi auguranti fertilità); l’attraversamento del foro simboleggia la nascita, o la rinascita ed era anche rito di iniziazione. Ritroviamo esempi analoghi a Trinitapoli, Parabita, Bologna, in Sardegna, Grecia (Sidirokastro, Skydra, Argostoli, Ag.Nektarios), Francia, Norvegia, Cornovaglia, Caucaso e addirittura a Nara e Kyoto, antiche capitali del Giappone, all’interno di monasteri buddisti e scintoisti. Il cristianesimo ha conservato il rito religioso e ne mantiene il significato profondo celebrandolo il Lunedì di Pasqua, che per i cristiani è rinascita.

La chiesa ha vissuto alterne vicende. Citata tra i confinanti in una compravendita di terreni a metà del XV secolo, era di rito greco ancora nel Seicento. Aveva l’altare posto sotto una cupola dipinta a fresco (lo spazio per l’officiante era separato, alla maniera greca, dallo spazio per i fedeli).

All’inizio del 1800, la chiesa fu assegnata, assieme alla sua rendita economica (un beneficio)alla parrocchia di Depressa, nella diocesi di Castro. E’ stato un fenomeno che ha riguardato varie chiesette della Diocesi di Otranto (anche a Zollino, Sternatia, ecc.), nel tentativo di rafforzare economicamente la diocesi di Castro, per evitarne la soppressione, che comunque avvenne nel 1819. Solo nel 1992 l’Istituto per il Culto di Otranto ha riassegnato le chiesette alle antiche parrocchie, e la chiesa di San Vito è tornata alla parrocchia di San Brizio a Calimera.

Attorno alla chiesa si festeggia la primavera ed il sacro (con la celebrazione della Santa Messa nel pomeriggio) si mescola al profano (con pic-nic nella campagna intorno, attraversamenti del foro, musica spontanea).